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L’ “Accattone” di Pasolini di Nicola Velotti

L’opera di Pier Paolo Pasolini nasce essenzialmente come “trascrizione simbolica di lacerazioni interiori, di mostri, di angosce, di contrasti di ideologie, di terrori ancestrali, di fascino e orrore della morte”. (1)

Il diagramma dell’operazione pasoliniana parte quindi dall’urgenza di esprimere queste ragioni interiori intese come componenti di una fase storica come fattori essenziali del mondo contemporaneo proprio nella loro natura estrema di tormento di diversità, di opposizione alla norma.

L’ ispirazione, il moto primo di tutto quello che Pasolini scrive, si fonda su di una antitesi, su di una contraddizione: “antitesi di posizioni intellettuali e morali verso i massimi temi della passione ideologica contemporanea, verso l’Italia, il popolo, la ragione, la religione”. (2)

Nella sua produzione, egli si è sempre impegnato a ribadire la continuità fra opera cinematografica e letteraria esistente nella sua coscienza di autore.

Per Pasolini l’esperienza cinematografica e quella letteraria non sono antitetiche esse sono considerate forme affini, infatti egli afferma: “il desiderio di esprimersi, attraverso il cinema, rientra nel mio bisogno di adottare una tecnica nuova, una tecnica che rinnovi, ciò significa anche il desiderio di uscire dall’ossessivo”. (3)

Quindi è opportuno il rapporto strettissimo tra i film e le poesie di Pasolini: l’anno di “Accattone” è anche l’anno di “La religione del mio tempo”, e la coincidenza si replicherà per il “Vangelo” e “Poesia in forma di rosa”. L’ intento esplicito sia del cinema che della poesia è la messa in immagini della realtà nella varietà e nell’estrema fluenza dei linguaggi, sino al limite del caos. Anzi la realtà stessa è piena di segni, totalmente linguistica, e l’immagine filmica e poetica è, al tempo stesso, lo specchio e il contrappunto che per via di balenamenti attraverso la forma “bella” ne svela il mistero sino a quel momento inespresso. La realtà, quale Pasolini ontologicamente presenta, è fatta di una materia evanescente ed indistinta con una sorta di ambiguità racchiudente in sé i termini distaccati di un’uguale natura che tempo e conformismo hanno costretto in un’oscura “no man’s land”. In forme intermittenti, essa ricompare nel bagliore della parola poetica e nella colorazione cangiante dell’inquadratura filmica. A differenza di tanti poeti e letterati italiani, Pasolini non nega la cronaca e gli eventi, ma vi si immerge per trarne immagini nostalgiche scomparse e insieme, per antitesi, immagini di estrema vitalità e dunque di possibile mutamento creativo e tearapeutico. L’esordio cinematografico di Pasolini come regista e le poesie di “La religione del mio tempo” rappresentano una crisi profonda della poetica pasoliniana e del contrasto tra passione e ideologia, tra natura e cultura quali erano venute configurandosi nei romanzi e ne “Le ceneri di Gramsci”. In quest’ultime egli aveva chiarito lo statuto proprio della sua poetica, partendo dal presupposto che il compito dell’artista impegnato e progressista non fosse quello di cantare la speranza del futuro, ma la disperazione del presente, non il bagliore incerto di una prospettiva di per sé rasserenante, ma le ombre e i contrasti di una condizione in atto. Una testimonianza del contrasto tra passione e ideologia è costituita dalla frequenza ossessiva dei dubbi, degli interrogativi, delle recriminazioni tormentose sulla propria ideologia, e dall’accresciuta pressione delle insorgenze irrazionalistiche, nel loro duplice e complementare aspetto di ascesa, di esaltazione vitalistica e di consapevolezza dell’esclusione e della morte.

“Accattone” esce a questo punto di ripiegamento e di crisi. “Il popolo è un grande selvaggio nel seno della società”, (4) aveva detto, citando Tolstoi, il Pasolini di “Ragazzi di vita”.

In una delle più sintomatiche “poesie incivili” “Al sole” aveva affermato che l’unica identificazione possibile è nel dolore, mentre il resto appare soltanto “casuale coincidenza”. Questo stato di ripiegamento e di crisi che irrompe con violenza nelle poesie prolungandosi spesso nella confessione delirante e personale, in “Accattone” appare tutto risolto, decantato, nell’evidenza e nella povertà dell’immagine.

Il primissimo piano del volto di “Accattone” immobile sul ponte, con l’angelo di marmo sullo sfondo, e il segno della croce prima di tuffarsi nel fiume introducono fin dall’inizio quella nota di sacralità di cui tutto il racconto sarà pervaso. La sfida alla morte è commentata dal coro infido e beffardo dei compagni; ma in altre sequenze del film la risata, così frequente e ossessiva, carica di autoironia e di sarcasmo assume un timbro liberatorio come nell’episodio in casa di Fulvio in cui si consumano la fatica e la pena di una giornata balorda.

La parabola di “Accattone” si risolve in una progressiva e inevitabile caduta nell’intimo della propria condizione, attraverso il succedersi delle varie possibilità che il personaggio vive e rifiuta, dall’infame situazione di protettore, al distruttivo accostamento al lavoro. E’ evidente come il contatto di “Accattone” con il lavoro, con la sua insostenibilità fisica e morale, si traduce in un nuovo e definitivo fallimento.

Nell’ “Accattone” è evidenziata una delle principali strategie di Pasolini regista: l’uso ambiguo del corpo dell’attore, con l’intento di chiarire significati nascosti a lui stesso.

L’interesse verso i corpi non riguarda unicamente la parte nuda, ma concerne anche i monili, i vestiti, gli addobbi, le decorazioni, un particolare corredo di oggetti d’uso e anche di feticci che hanno la capacità di immetterci nelle zone inesplorate del senso. Per questo il cappello femminile che il lenone per scherzo si mette in testa sembra sospendere per un istante il racconto che appariva acquisito e connaturato alla materia, introducendovi una sfumatura strana e sfuggente, quasi un’altra natura che si distingue per tinte oscure da quella del borgataro.

La crisi di “Accattone”, ricorda Pasolini, “si compie, non solo nell’ambito della sua irriflessa e inconscia condizione sociale”. (5)

L’ ”Accattone” è una tragedia, o meglio, la sofferta storia di un destino tragico, in un mondo da cui il tragico è escluso, come scandaloso e anacronistico. L’ ”Accattone” è una parabola rovesciata.

(1) Barberi Squarotti – “La narrativa italiana del dopoguerra” – Bologna – Cappelli – 1965 – pag. 191

(2) Fortini – “Pasolini in saggi italiani” – De Donato – Bari – 1974 – pag. 122

(3) Martini – “L’accattone di Pier Paolo Pasolini” – in “Cinema nuovo” n.150 – Marzo – Aprile 1961

(4) P. Pasolini – “Ragazzi di vita “ – Milano – Garzanti

(5) P.P. Pasolini- “Accattone” – Roma – 1961 – pag.21

NICOLA VELOTTI

 

 

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