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FORMARE AL «MESTIERE DI VIVERE». Pratiche filosofiche rinnovate ed educazione degli adulti di Andrea Ignazio Daddi

Nell’era della formazione continua e del lifelong learning l’educazione degli adulti è ormai da tempo una prassi diffusa quanto una disciplina pedagogica consolidata; ciò nondimeno pare significativamente interessante continuare a chiedersi a cosa, di fatto, venga formato il soggetto postmoderno. Per quanto non esclusive, a tutta prima restano quantitativamente predominanti finalità di recupero e/o acquisizione progressiva di conoscenze, procedure, competenze e abilità[1], skills sempre più specialistiche poi spendibili sul mercato del lavoro, anche quando il lavoro viene a mancare (perché comunque resta il mercato che – al fine incurante di quanto si sia specializzato il singolo – sembra essere il protagonista assoluto/ab solutus di questi nostri tempi travagliati) e l’individuo-prodotto deve trovare un nuovo datore cui «vendersi». La mia stessa esperienza personale di formatore attesta, ad esempio, un cospicuo ricorso allo studio meramente strumentale della lingua inglese e una crescente richiesta di percorsi di (ri)orientamento professionale.

Eppure ci è ben noto che l’educativo, in ogni stagione della vita, è assolutamente irriducibile al solo registro utilitaristico e a ogni imperante logica economicistica. Non a caso, secondo Duccio Demetrio,

[…] nel momento in cui la formazione è considerata soltanto una tecnologia che eroga saperi per l’adattamento ai contesti organizzativi, per il miglioramento di capacità, competenze e gestioni di ruolo, per l’incremento di consumi e produzioni, essa vede scemare e sbiadire del tutto la sua consistenza ontologica, per assumere significati per lo più sul piano tecnologico[2].

Come bene ci ricorda Elena Marescotti, inoltre, il termine ‘formazione’ deriva

[…] dal greco phorein […], che ritorna nel latino fero, portare, ma anche mostrare il proprio portamento, ovvero costruire ed evidenziare le caratteristiche portanti del proprio essere, la propria forma, appunto […][3].

Non si può, allora, non concordare con Eduard C. Lindeman (1926) nel sostenere che il vero scopo della formazione in età adulta è quello di attribuire un senso all’esistenza e che una tale azione formativa possa effettivamente avere inizio una volta accantonati gli interessi professionali.

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[1] Finalità presenti, del resto, anche nei curricoli scolastici di ogni ordine e grado, e che troppo spesso danno adito a pratiche didattiche ispirate al puro nozionismo o a varie forme di tecnicismi.

[2] D. Demetrio, Filosofia dell’educazione ed età adulta. Simbologie, miti e immagini di sé, UTET, Torino 2003, p. 137.

[3] E. Marescotti, Educazione degli adulti. Identità e sfide, Edizioni Unicopli, Milano 2012, p. 52. Per un’analisi più dettagliata dell’attuale significato del termine in seno alle scienze dell’educazione cfr. R. Massa, Istituzioni di pedagogia e scienze dell’educazione, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 566-569.

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La ricerca di un ‘senso’ – nella duplice accezione del termine (‘significato’, ma anche ‘orientamento’) – è una necessità umana imprescindibile che, come scrive Romano Màdera,

[…] promana dalla libertà originaria della cultura […]. Statura eretta, liberazione delle mani dalla deambulazione e loro uso per fabbricare e usare strumenti, vista panoramica, corticalizzazione e differenziazione cerebrale: queste le premesse condizionanti della possibilità di ″immaginare altrimenti″, di vedere in altre forme potenziali il dato. Una possibilità che diventa necessità una volta superata questa soglia, dalla quale non si può più tornare alla condizione precedente[1].

Sin dalle sue origini la filosofia ha costituito una forma di accoglimento di detta necessità e una possibile risposta alla domanda che ne stava alla base, mostrando in tal modo la sua costitutiva natura pratica e pedagogico-andragogica di ‘esercizio’, poi vittima della separazione forzata tra ‘discorso’ e ‘vita’ impostale dalle esigenze della nascente teologia cristiana che ne ha decretato la riduzione a pura speculazione. È grazie all’impareggiabile opera di esegesi testuale e ricostruzione filologica di Pierre Hadot[2]e Michel Foucault[3] se oggi possiamo disporre di una visione non manualistica e stereotipata della filosofia antica: una visione che restituisce alla filosofia stessa la sua più propria natura e offre a noi contemporanei la prospettiva di nuovi possibili scenari formativi.

Perché qui sta proprio il punto: dopo la svolta pratica che l’ha caratterizzata nel corso del Novecento, la filosofia è tornata ad abitare la polis, uscendo dalle esclusive e a volte anguste mura delle accademie e proponendosi come

[…] movimento di formazione degli adulti in palese controtendenza culturale […] volto a restituire agli individui il desiderio di […] [perseguire] lo sviluppo della pensosità e della problematizzazione – individuale e condivisa – di ogni momento di vita[4].

La (ri)nascita e il tuttora crescente sviluppo delle pratiche filosofiche costituiscono, così, un passaggio che credo non sia azzardato definire epocale; sono infatti convinto che il ritorno della filosofia alla vita vissuta sia più che salutare (e forse salvifico) per la nostra umanità disorientata.

Certo quella delle pratiche filosofiche è una galassia composita di realtà fortemente eterogenee che in questa sede non può essere presa compiutamente in esame. Quel che segue è, invece, una rapida rassegna delle principali caratteristiche delle pratiche filosofiche rinnovate proposte

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[1] R. Màdera, La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, pp. 158-159.

[2] Cfr. P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica (2002), trad. it., Einaudi, Torino, 2005; Id., Che cos’è la filosofia antica? (1995), trad. it., Einaudi, Torino, 1998; Id., La filosofia come modo di vivere (2001), trad. it., Einaudi, Torino, 2008.

[3] Cfr. M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. it., Feltrinelli, Milano, 2003; Id., La cura di sé (1984), trad. it., Feltrinelli, Milano, 1985.

[4] D. Demetrio, “Dia-logo versus mono-logo? Riflessioni sull’esercizio autobiografico come incontro filosofico”, Adultità, 27, 2008, p. 7.

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da Màdera, collaboratori ed allievi, nonché delle notevoli ricadute formative che queste possono avere per gli adulti che noi siamo.

La sfida è quella di adattare alla contemporaneità gli esercizi spirituali antichi di cui Hadot si è fatto testimone d’eccezione e di rinnovarli quale stile di vita.

Nel farlo si adotta un approccio eclettico e sincretico e si rideclina la sapienza greco-romana secondo modalità più prossime alla comune sensibilità attuale.

Necessariamente si parte dalla dimensione individuale, così centrale oggi quanto invece marginale era per gli antichi: il dato biografico e la concentrazione su di sé, però, danno il là ad un percorso composito che accompagna un soggetto narcisisticamente ripiegato su di sé verso forme di trascendenza plurime.

La trascendenza non indica, da questo punto di vista, una realtà “altra” trascendente e inattingibile, nel senso metafisico o religioso del termine […]; essa è piuttosto immanente alla vita e si palesa come la capacità di stabilire delle connessioni con qualcosa di più grande dell’io e di percepirsi come parte di esso, riconoscendo in questa privilegiata esperienza di senso che esistere è prendere parte [alla] tessitura dell’ordito del mondo […].[1]

La verità, il rapporto con gli altri, il sentirsi parte di una cultura e del cosmo tutto sono la posta di una serie di veri e propri esercizi che vanno a formare una dieta quotidiana[2]. La comunicazione di sé all’altro è solidale e prevede la sospensione di ogni tendenza confutativa e di ogni tentativo di interpretazione sostitutiva; si tratta di una forma di educazione alla pace, incentrata sulla regola d’oro e sul “principio misericordia”.[3]

L’apporto della psicologia del profondo junghiana indica, poi, nuovi obiettivi: il riconoscimento e l’accettazione della parte di Ombra che dimora in ciascuno di noi e la sua trasformazione anamorfica così come la consapevolezza di essere soggetti desideranti in balìa di un desiderare infinito, destinato a non essere mai pago di qualsivoglia desiderata, segno inequivocabile della nostra costitutiva mancanza.

La dimensione corporea non è trascurata, ma riconnessa allo psichismo che in lei trova le sue stesse radici e al registro logico-razionale si affianca quello simbolico-figurale, altra forma di comunicare propria dell’umano e parimenti degna.

Qui non ci si sofferma oltre sulle specifiche, rimandando alla lettura dei testi citati e – auspicabilmente – alla messa in atto delle prassi.

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[1] M. Montanari, Vivere la filosofia, Mursia, Milano 2012, p. 11.

[2] Cfr. R. Màdera, La carta del senso, op. cit.; Id., Una filosofia per l’anima. All’incrocio di psicologia analitica e pratiche filosofiche, Ipoc, Milano 2013; C. Mirabelli, A. Prandin (a cura di), Philo. Una nuova formazione alla cura, Ipoc, Milano 2015; S. Fresko, C. Mirabelli (a cura di), Qual è il tuo mito. Mappe per il mestiere di vivere, Mimesis, Milano, 2016; A. I. Daddi, Filosofia del profondo, formazione continua, cura di sé. Apologia di una psicoanalisi misconosciuta, Ipoc, Milano, 2016.

[3] Cfr. R. Màdera, La carta del senso, op. cit. e A. I. Daddi, “Principio Misericordia, perfezionismo morale e nuova etica. La proposta màderiana per l’Occidente del terzo millennio”, in I. Pozzoni (a cura di), Rassegna storiografica decennale II, Limina Mentis, Monza, 2018, pp. 141-148.

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Quanto brevemente delineato vorrebbe semplicemente rendere atto delle effettive potenzialità delle pratiche filosofiche a formare al «mestiere» più difficile: quello di vivere e di essere più pienamente sé stessi.

 

ANDREA IGNAZIO DADDI

 

 

 

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